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L’Imam e la pratica islamica in ambito carcerario – Una proposta operativa contro la radicalizzazione

di Marco Soddu (MA, PhD), criminologo

Introduzione

La disamina documentale indica senza riserva alcuna come la struttura detentiva rivesta in questo periodo storico un ruolo primario nel reclutamento terroristico e, in generale, in tutte quelle attività di proselitismo criminale che generano a livello sociale esternalità negative. Il ruolo degli Imam rappresenta una prerogativa gestionale istituzionale alla quale conferire un imponente livello di attenzionamento, con la necessaria consapevolezza che la pratica del culto non possa essere impedita, ma che anche una libertà religiosa intramuraria senza possibilità di intervento (che come ampiamente provato trascende in pratiche devianti) sia assolutamente inaccettabile.

Questo studio analizza il problema della radicalizzazione interna, proponendo una soluzione mirata (e attuabile) con riferimento alla preghiera e alla conduzione della stessa. L’Imam istituzionale e quello autoproclamatosi rappresentano gli elementi base della presente trattazione.

 I meccanismi della conversione

La conversione primaria (operata su un individuo proveniente da un’altra confessione religiosa) si instaura attraverso un meccanismo intrapreso da un soggetto definibile come promotore che, attraverso un’opera attenta e mirata, individua i ristretti suscettibili di conversione e radicalizzazione e pone in essere, in un primo momento, una serie di comportamenti generanti delle forte criticità personali, seguite dall’indottrinamento religioso postulato come naturale soluzione alle disfunzionalità rimarcate e recepito come riscatto per una precedente condotta esistenziale dipinta e imposta come erronea, che necessita quindi di immediata redenzione.

Ai convertiti primari si affiancano i cosiddetti riconvertiti; trattasi di musulmani precedentemente non praticanti (solitamente dediti a crimini minori di spaccio e all’utilizzo di sostanze) che ricevono negli istituti carcerari una profonda rieducazione, in un primo frangente indirizzata a una aspetto riparativo, per poi essere rivolta verso un protocollo inculcante una disciplina religiosa ferrea, che diventa una sorta di impegno imprescindibile esistenziale da attuare in ogni momento del vissuto quotidiano. Questa categoria di reclusi (Multazimun) a differenza del praticante medio (tendenzialmente innocuo) palesa nel vestiario (sandali, barba, veste e copricapo solitamente bianco) e nella comunicazione verbale (con continui riferimenti al Corano, anche nell’eloquio comune) una intransigenza totale sul piano ideologico e nello specifico su tutte le regole codificate, proprie (come logica impone) del carcere. L’aspetto che qui interessa è che questi soggetti sovente assumono il ruolo di Imam autoproclamato divulgando, oltre a un dettame religioso inficiato dal radicalismo, anche l’insofferenza che li contraddistingue, arrivando quindi a proporre come regola un parallelo (e una pratica trasposizione) tra il contrasto rivolto alla norma intramuraria e tutto l’insieme di istanze che regolano la società occidentale.

Esemplificando, in termini di effettività del bersaglio da vagliare per il proselitismo, il promotore considera:

  • la violenza psicologica e/o fisica subita al fine della conversione;
  • la logica mancanza della libertà propria della condizione detentiva;
  • l’isolamento famigliare e sociale (soprattutto dei clandestini);
  • il rispetto e/o l’insofferenza associabili alle regole naturalmente sottoposte in quanto popolazione carceraria;
  • la pressione dell’agglomerato detentivo precostituito;
  • i processi di emarginazione agiti nei confronti di chi non si adegua alle varie specifiche della condizione intramuraria.

Il processo di radicalizzazione può invece essere ulteriormente favorito da:

  • la corrispondenza illegale con gli estremisti;
  • la commistione con i reclutatori;
  • la presenza di istigatori fanatici;
  • l’insoddisfazione nei riguardi dell’apparato giudiziario;
  • l’influenza negativa del personale esterno che accede in istituto;
  • l’utilizzabilità di materiali/documentazione di matrice/orientamento radicale.

Criticità e proposte operative

Recita l’Articolo 26 dell’Ordinamento Penitenziario:

Religione e pratiche di culto: I detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti é assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto é addetto almeno un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, la assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti. (Art. 26: Ordinamento Penitenziario – Legge N° 354 del 26/07/1975)

La disposizione succitata dell’O.P. rappresenta l’essenza giuridica delle specifiche direttive immediatamente riferibili alle modalità attuative dell’aspetto religioso in regime intramurario.

La disamina origina dalla naturale descrizione della condizione attuale che, in termini squisitamente pratici, risulta essere uno specchio fedelmente implementato della direttiva. Ovviamente, il riferimento proposto in questa ricerca è indirizzato principalmente alla popolazione araba ristretta (con oltre un terzo di presenza intramuraria) ma non solo, perché gli obiettivi della radicalizzazione, e ne abbiamo prova inconfutabile, possono essere anche i detenuti non arabi, soggetti a proselitismo.

L’Articolo 26 O.P. risulta essere quindi pienamente esplicativo di quella che è la situazione attuale, logico punto di partenza per la presente proposta, volta a risolvere quella che rappresenta una criticità. Ci si soffermi sull’ultima parte della disposizione penitenziaria “Gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, la assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti”; nella pratica emergono due disfunzionalità provate:

  • in molti casi l’Imam proveniente dall’esterno è stato fautore di radicalizzazione, sovversione, instabilità interna e quindi è stato soggetto ad allontanamento e sottoposto a relativo procedimento;
  • in altri contesti, nessun Imam esterno ha richiesto/richiede la presa in ruolo in ambito carcerario (e sarebbe quantomeno opportuno domandarsi il perché) e conseguentemente un detenuto si assurge a guida per la preghiera (il cosiddetto Imam autoproclamato), gestendo quella che dovrebbe essere la professione gruppale del culto (ovviamente in lingua Araba), dando luogo come tendenza a fenomeni di radicalizzazione.

Il punto 1) a livello di indagine risulta essere poco strutturato, nel senso che l’incitamento alla radicalizzazione dell’Imam in oggetto appare molto più tracciabile da parte dell’Autorità competente, anche in ragione del suo agito all’esterno dell’istituto penitenziario.

Il punto 2) racchiude i maggiori parametri allarmistici. In particolare:

  • la lingua, l’arabo ovviamente, utilizzato nella preghiera ma anche nel quotidiano, non è soggetta a simultanea traduzione e questo porta alla non conoscenza degli approcci utilizzati all’interno della sezione, con la conseguenza che nell’immediato la predisposizione e l’implementazione di misure in regime di emergenza risultano essere inficiate e procrastinate.
  • Il proselitismo molto più ampio portato anche nelle camere di pernottamento (conosciute comunemente come celle) e nel vissuto giornaliero, visto che l’Imam ristretto (autoproclamato) opera costantemente come pseudo guida spirituale; il suo ruolo non è quindi delimitato temporalmente nel solo intervallo della preghiera e, in termini molto pratici, non si assiste a una soluzione di continuità tra incontro religioso e rapporto ordinario tra reclusi che dovrebbero essere in una condizione di parità (come modalità imposta del trattamento) e non di subordinazione, anche religiosa.
  • La non possibilità di riconoscere effettivamente una radicalizzazione reale da una apparente e agita solo perché si deve convivere (e adeguare) nel circuito detentivo, mentre con l’Imam esterno la funzione sarebbe configurabile solo alla mera celebrazione religiosa, visto che gli altri detenuti sarebbero totalmente spogliati di questa prerogativa e mai legittimati a praticarla come Imam
  • L’Islam è il credo più presente tra i detenuti stranieri clandestini, categoria, come descritto, più isolata socialmente, in particolare a livello famigliare, con meno risorse e quindi maggiormente suscettibile ai profili del reclutamento radicale.

Stante il logico e ribadito rispetto per la menzionata libertà di culto (da citato Articolo 26 O.P. e da Articolo 19 della Costituzione, secondo il quale “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”) e in considerazione delle criticità esposte, si prospetta la necessità di un intervento specifico, mirato alla predisposizione di una serie di misure atte a confinare quelle che sono le disfunzionalità presentate, con particolare attinenza al ruolo dell’Imam (ufficiale o autoproclamato).

Come enunciato, si sono verificati nel corso degli anni, e in diversi istituti detentivi, degli ingressi da parte di Imam, ufficialmente riconosciuti, che hanno fomentato azioni violente e vicinanza ai propositi criminali terroristici. Queste figure sono state immediatamente allontanate e si è però assistito, come diretta conseguenza, alla autoproclamazione di una guida non riconosciuta (un recluso) alla preghiera islamica: elemento quindi non istituzionale che ha assunto una posizione su base estemporanea e senza controllo preventivo alcuno.

La non omogeneità deliberativa delle associazioni musulmane (UCOII – Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia) presenti nel territorio nazionale genera delle condizioni di incertezza (e ci si dovrebbe domandare se questa incertezza sia volontaria) che portano alla non indicazione di un Imam da inviare in un dato penitenziario, lasciando così spazio all’azione dei singoli reclusi. Il tutto con la dovuta e imprescindibile considerazione che la religione è parte attiva del percorso trattamentale del ristretto (come da Art. 15 – Elementi del trattamento Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”) e dovrebbe essere gestito da un profilo esterno istituzionalizzato e connotato da una veste di superiorità (nel senso più nobile del termine, non con senso di sottomissione) e non da un altro detenuto, così come accade per tutte le altre confessioni che inviano negli istituti di reclusione personale religioso istituzionale in concerto con lo Stato Italiano (Chiesa Evangelica Luterana, Tavola Valdese, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle Comunità Ebraiche, Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, Chiesa Apostolica, Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, Chiesa Cristiana Avventista, Unione Buddhista Italiana, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai).

La strada percorribile sarebbe l’adozione di un protocollo che preveda solo e unicamente l’ingresso in tutti i circuiti detentivi (AS2 in particolare) di Imam istituzionali rispondenti a certe caratteristiche comportamentali e che siano ovviamente disgiunti da tutte quelle dinamiche associabili al proselitismo, alla radicalizzazione e in generale all’estremizzazione della religione islamica. Inoltre, dato l’enorme allarme sociale generato dal terrorismo islamico e le naturali esigenze di sicurezza intramuraria, sarebbe altresì auspicabile codificare il divieto assoluto di assumere il ruolo di Imam autoproclamato, consentendo la pratica religiosa a livello personale o in preghiera collettiva, ma senza la guida interna di un detenuto, il tutto anche per le menzionate esigenze di non innalzare nessun recluso sopra il livello degli altri e perché, come chiaramente dichiarato, la guida religiosa ricopre un ruolo istituzionale rieducativo e un detenuto che rieduchi un altro ristretto rappresenta non solo una contraddizione in termini, ma trascende da quanto previsto in ambito costituzionale e nell’ordinamento penitenziario. La figura dell’Imam esterno imposto (e ovviamente moderato) avrebbe anche l’esternalità positiva di permettere di tracciare chi, all’interno della struttura detentiva, arrivi a rifiutarne il ruolo per il carattere non estremista del profilo presentato, e quindi consentirebbe di superare molte disfunzionalità direttamente riferibili, e precedentemente indicate, nell’individuare una reale ed effettiva radicalizzazione.

Conclusioni

La sempre valida e attualissima “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza” sottolinea che nelle carceri Italiane:

è stata rilevata un’insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da veterani, condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori.” Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza. DAP – 2008.

L’esperienza detentiva rivela una agiuridica catena strutturata del reclutamento dove le condizioni sono ideali per la creazione di un agglomerato radicalizzante (con un costante legame alla base terroristica esterna). Occorre quindi un monitoraggio capillare e la soluzione del problema della gestione della preghiera deve rappresentare, in tempi brevi, una tappa obbligata e indemandabile. Si assiste, come esplicitato, in tutti i circuiti di contenimento a detenuti radicalizzati che si ergono prepotentemente (di motu proprio) a guida degli altri ristretti con effetti nefasti sia per la sicurezza carceraria, sia per il rischio immediatamente riferito alla sicurezza nazionale, con la conseguente creazione di associazioni estremiste finalizzate al terrorismo (in ambito al-Qa’ida, ma soprattutto, vista la minor richiesta di indottrinamento formale, in seno all’Isis).

Come evidenziato, un accredito dei ministri del culto islamico, valutati attentamente da parte del Ministero dell’Interno, con la tassativa proibizione delle succitate autoinvestiture, appare come una chiara prerogativa delle funzioni di chi applica una dottrina preventiva e al momento come la sola via percorribile. Il tutto con un maggiore rispetto delle peculiarità trattamentali, grazie alla guida religiosa islamica che diventerebbe istituzionale (sempre e comunque e senza possibilità di delega) e con nessun detenuto che potrebbe quindi arrogarsi un ruolo religioso e una posizione predominante (così come quella legalmente riconosciuta alle professionalità preposte) all’interno delle carceri.

La comunicazione tra istituzioni, inoltre, deve essere sempre in piena efficienza, anche attraverso lo scambio di dati utili a riconoscere e prevenire potenziali fattezze agiuridiche di matrice terroristica generate dall’ambiente penitenziario.




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