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L’impegno militare europeo nel contrasto al terrorismo in Africa occidentale e nel Sahel

di Marco Cochi

«L’amministrazione Trump è divisa su come combattere i terroristi, sostenere gli alleati e contrastare i competitor globali nell’Africa occidentale. I messaggi contrastanti che arrivano da Washington stanno confondendo gli alleati in Europa, che sono profondamente impegnati nel garantire la sicurezza nella regione». Così, alla fine di febbraio, il Premio Pulitzer e giornalista del New York Times, Eric Schmitt, cominciava la sua analisi sulle conseguenze e le reazioni all’annuncio fatto alla fine del 2019 dal segretario alla Difesa Mark T. Esper di operare pesanti tagli alla presenza militare statunitense nel continente.

Tagli che dovrebbero includere la chiusura della nuova Nigerien Air Base 201 per droni, costata 110 milioni di dollari e divenuta operativa lo scorso novembre; oltre che l’interruzione degli aiuti alle forze francesi dell’Operazione Barkane impegnata nel contrasto ai gruppi jihadisti attivi in Mali, Niger e Burkina Faso.

Tuttavia, lo scorso aprile il comandante dell’Africom, il generale Stephen Townsend, sembra aver contraddetto l’annuncio di Esper, dichiarando che «gli Usa continueranno a sostenere i partner africani, soprattutto dopo che al-Qaeda e l’Isis hanno affermato di utilizzare lo sconvolgimento globale derivato dalla diffusione della pandemia come un’opportunità per promuovere la loro agenda terroristica».

Quanto accaduto, nelle ultime settimane, in Africa occidentale e nel Sahel sembra dare conforto agli annunci dei due network jihadisti. Poiché mentre il mondo si è concentrato sulla lotta per frenare la diffusione del Covid-19, nelle due regioni si sono intensificati gli attacchi. Come dimostrano, i sanguinosi attentati lanciati nelle scorse settimane in Ciad dal gruppo jihadista nigeriano Boko Haram e nello stato del Borno dagli islamisti dell’Iswap, la fazione (maggioritaria) di Boko Haram affiliata allo Stato Islamico.

In questa fase di emergenza sanitaria ed economica causata dal nuovo coronavirus, la presenza militare statunitense nella regione assume quindi una valenza ancora maggiore per aiutare le missioni europee impegnate sul campo nel contrasto al terrorismo.

Missioni che vanno anche aumentando a livello numerico, dopo che lo scorso 8 maggio 13 paesi europei hanno annunciato lo spiegamento di una task force in Mali, che prenderà il nome di Takuba e vedrà la partecipazione di 500 effettivi delle forze speciali per contrastare la minaccia terroristica soprattutto nella regione del Liptako-Gourma.

L’unità andrà ad aggiungersi all’elevata presenza di forze militari straniere che già combattono le organizzazioni terroristiche nell’Africa occidentale e nel Sahel. Tra le quali, ricordiamo la missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA); la forza congiunta dei paesi del G5 Sahel (FC-G5S) sostenuta dall’Unione europea; la già citata operazione militare a guida francese Barkhane; la missione militare dell’Unione europea EUTM Mali volta a contribuire alla formazione delle forze armate maliane, oltre che a fornire assistenza alla FC-G5S; la missione civile EUCAP Sahel Mali che offre assistenza e consulenza alle forze di sicurezza interna del Mali.

Da evidenziare che la FC-G5S integra i mandati della Barkhane, della EUTM Mali e della MINUSMA, che dal 2012 è impegnata per sostenere il processo politico di transizione e stabilizzare il nord del Mali ed è caratterizzata da un tasso di letalità molto elevato.

Fermo restando che è stata proprio l’evidente difficoltà delle forze internazionali nel fermare l’azione dei gruppi jihadisti e garantire la sicurezza dei Paesi del G5 Sahel, a portare i membri del gruppo regionale a chiedere l’assunzione di un ruolo più centrale nella lotta al terrorismo nell’area. È importante anche ricordare che una delle principali aspettative sull’operato della forza congiunta G5 Sahel era insita nel fatto che migliorando la situazione generale della sicurezza, avrebbe potuto consentire alla MINUSMA di adempiere al meglio al suo mandato di peacekeeping in Mali. Tuttavia, la FC-G5S, le cui truppe sono composte al 35% da militari dei Paesi del G5, può fornire alla MINUSMA supporto logistico solo a livello locale perché il mandato di stabilizzazione della missione delle Nazioni Unite copre solo il Mali.

Il mandato della Forza congiunta saheliana è anche più esteso di quello dell’Operazione Barkhane, in quanto affronta sia il terrorismo sia la criminalità transnazionale attraverso operazioni congiunte transfrontaliere. Ma la Barkhane, che dalla fine di febbraio è arrivata ad impiegare 5.100 effettivi nella regione, di cui la maggior parte in Mali e il resto in Niger e Ciad, ha ottenuto risultati molto più significativi rispetto alla FC-G5S, soprattutto nel ridurre le capacità offensive dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS).

Il 1° agosto 2014 la Barkhane ha integrato l’operazione Serval in Mali e l’operazione Épervier ( presente in Ciad dal 1986) segnando l’inizio del suo impegno nel contrasto al terrorismo nel Sahel. Da quella data hanno perso la vita 43 soldati francesi della missione militare, mentre nello stesso periodo i suoi uomini hanno eliminato più di 700 jihadisti, di cui 200 solo nel 2018.

Tra questi figura uno dei terroristi più ricercati del mondo: l’emiro di al-Qaeda nel Magreb islamico (AQMI), Abdelmalek Droukdel, alias Abu Mussab Abdelwadud, ucciso il 3 giugno scorso, quando è finito nella trappola tesa dai francesi nel nord del Mali, a Talahandak, a una decina di chilometri dal confine con l’Algeria. Altri due jihadisti di spicco eliminati dagli effetivi della Barkhane sono Abu Hassan al-Ansari e Yahia Abu al-Hammam, due dei cinque leader del Gruppo per il sostegno all’islam e ai musulmani (GSIM) che appaiono nel video di proclamazione del gruppo, postato su un forum islamista il 2 marzo 2017. Nell’agosto 2018, gli uomini della Barkhane hanno anche costretto alla resa il jihadista Azou Aissa, noto come Sultan Ould Bady, emiro della Brigata Salahadin che aveva abbandonato al-Qaeda per aderire alI’ISGS. Mentre l’annuncio dato nel novembre 2018 dalla Barkhane sull’eliminazione del numero due del GSIM e leader del Fronte di Liberazione del Macina, Amadou Kouffa, è stato smentito tre mesi dopo dall’apparizione in video del capo jihadista.

Nei termini della disamina, occorre però considerare che rispetto alla forza congiunta G5 Sahel l’operazione Barkhane ha avuto più tempo di affinare le sue capacità e strategie operative sul territorio. Anche se i successi militari ottenuti dall’operazione a guida francese non sono stati sufficienti a debellare definitivamente la minaccia dei gruppi jihadisti dalla regione.

L’incisiva presenza della Barkhane e delle altre truppe europee nell’Africa occidentale e nel Sahel finora non è riuscita a fermare l’insorgenza dei gruppi estremisti, che stanno effettuando attacchi sempre più frequenti e sofisticati contro i villaggi e le basi e dei locali eserciti in Mali, Niger e Burkina Faso.

La strada per riportare in sicurezza l’area è ancora in salita, soprattutto se teniamo in considerazione il sostegno popolare di cui i gruppi estremisti beneficiano in alcune zone del Mali e del Burkina Faso.  Un sostegno derivato dalla scarsa capacità dei governi dei due Stati di garantire i servizi di base a vaste fasce della popolazione, soprattutto quella delle aree rurali dove le lacune sociali sono più accentuate.

 




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