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Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

articolo originale del 6 settembre 2014 pubblicato per ITSTIME

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].

 

[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in Link.

[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.

[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.

[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.

[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.

[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.

[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in Link.




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